Sdrogabrescia

Usi e abusi

Immigrazione e altri problemi di identità

Emigrazione/immigrazione, uso dannoso o uso disapprovato di sostanze, dedizioni patologiche

Dal punto di vista clinico (cioè di come affrontare il problema della singola persona), chi lavora nei Servizi per le Dipendenze si pone, rispetto ai pazienti/utenti “stranieri”, tre interrogativi:

  • l’emigrazione/immigrazione in quanto tale, indipendentemente dal paese di partenza e dal paese di arrivo, potrebbe essere un fattore di rischio per le tossicomanie ?
  • se lo è, qual è il rapporto tra i due fenomeni?
  • come eventualmente questo rapporto potrebbe interferire con il trattamento del singolo paziente?

Questi tre quesiti prescindono dai riflessi che il rapporto emigrazione/ uso dannoso di sostanze/ dedizioni patologiche potrebbe avere su:

  • i programmi di prevenzione primaria
  • i programmi di salute pubblica
  • le politiche sociali

perché questi aspetti, pure importanti, dovrebbero essere trattati in sedi diverse dagli ambulatori. Inoltre, prima di considerare i dati derivanti dall’esperienza clinica e/o dalla letteratura scientifica, è forse opportuno riflettere sul significato che attribuiamo a due termini di uso comune chiedendoci, in primo luogo, chi è il “tossicodipendente” (o “dipendente”) per cui sono stati istituiti i SERT – SMI e chi è lo “straniero” che viene così definito nel linguaggio corrente.

Chi è il “tossicodipendente”?

“Tossicodipendente”, “tossicomane”, “tossicofilo”, “psiconauta”,”disturbato”, “drogato”, “deviante”, “delinquente” : queste parole sono spesso utilizzate per indicare il comportamento di chi assume sostanze vietate. Frequentemente l’uso dell’uno o dell’altro termine non dipende tanto, però, dalle caratteristiche della persona ma dalle interpretazioni di chi parla: malattia organica del cervello, malattia “mentale”, degenerazione morale, atto antisociale, crimine, devianza, anticonformismo e apertura mentale… L’art. 120 del DPR 309/1990 , nell’istituire i SERT-SMI, attribuisce a questi servizi il compito di offrire assistenza a tutte queste “versioni” del fenomeno (che si vuole in ogni caso contrastare) quando recita: “Chiunque fa uso di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope può chiedere al servizio pubblico per le dipendenze o ad una struttura autorizzata (…) di essere sottoposto ad accertamenti diagnostici e di eseguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo”. Quali siano le sostanze stupefacenti o psicotrope è precisato dall’art. 13 della stessa legge: “tutte le sostanze e i preparati indicati nelle convenzioni e negli accordi internazionali”. Per la legge italiana, quindi, qualunque assunzione di queste sostanze merita l’intervento del Servizio Tossicodipendenze. Dal punto di vista clinico, invece, i termini utilizzati sono stati il riflesso delle diverse teorie (o, per qualcuno, delle diverse “mode”) che hanno accompagnato gli interventi su un fenomeno specifico e ben noto sia a coloro che ne sono affetti sia ai loro “terapeuti”. Quello di chi (qualunque sia la sostanza o il comportamento che si vorrebbe evitare e il regime legale in cui viene assunta) vuole sinceramente smettere ma, non ostante ripetuti tentativi, non ci riesce. Chi è dunque il tossicodipendente? O l’alcolista-alcolizzato-ubriacone-buon bevitore? O il sessuomane, donnaiolo, seduttore? o il bulimico, obeso, ciccione, bello grasso, gourmet? dipende! Ma non sempre da lui. Nel corso degli anni, infatti, le  situazioni legate a questi comportamenti sono entrate ed uscite dai testi di medicina e dai trattati di criminologia (quindi, in concreto, dai manicomi, dalle “comunità”  e dalle carceri) a seconda di dove gli esperti e/o la società hanno deciso di mettere l’asticella della normalità: in genere più bassa per le donne, le persone di umili origini e gli stranieri con usanze diverse, più alta per gli uomini, le classi dirigenti e gli “autoctoni”. In conclusione, quando parliamo di rapporto tra “tossicodipendenza”  (o come la vogliamo chiamare) ed un qualsiasi fattore di rischio dovremmo tener conto del fatto che la serie di termini utilizzati ha significati:

  • dipendenti dalle interpretazioni di chi parla più che da un fatto in sè;
  • variabili nel tempo e nello spazio;
  • condizionati dalla cultura di riferimento

Chi è “straniero”?

Solo apparentemente più semplice sembra la definizione del termine “straniero”. Pensiamo ai seguenti casi:

  • persona nata in Italia, con cognome italiano, con usi, costumi e parlata della Val Trompia ma senza cittadinanza perchè figlio di genitori africani (come Mario Balotelli fino ai 18 anni);
  • persona di Piana degli Albanesi, di famiglia Albanese lì residente dal 1487, che parla albanese ma legalmente  italiana da decine di generazioni;
  • madrelingua francese nato a Ginevra da madre belga e padre italo-montenegrino con cognome francese, cittadinanza italiana e famiglia italiana da oltre mille anni (come Emanuele Filiberto di Savoia);
  • cittadino italiano di madrelingua e cognome tedeschi irredentista tirolese (come Eva Klotz);
  • cittadino austriaco di madrelingua e cognome italiani irredentista italiano (come Cesare Battisti).

Tutte queste persone potrebbero essere definite “straniere”, oppure no, in base ai criteri che si decidesse di adottare per definirne la nazionalità. Anche sul piano legislativo le distinzioni non sono così nette. Oltre ai casi di doppia e tripla cittadinanza, per esempio, il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero in Italia D. LGS. 286/1998 “si applica (…) ai cittadini di stati non appartenenti all’Unione Europea e agli apolidi” (art1). Quindi ai Ticinesi sì (anche se ad un Romano appaiono indistinguibili dai Comaschi) e agli Amerindi della Guyana Francese parlanti la lingua Arawak no.

La “nostra cultura”, la “loro cultura”: di chi stiamo parlando?

“Una d’armi, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”. Questa definizione della comunità nazionale (e, per contrasto, anche di chi ad essa è straniero) che abbiamo imparato a scuola, oltre a non essere mai stata applicabile, per esempio, ai pur ben identificabili Svizzeri, non è, come si è visto, nemmeno tanto pertinente a “casi” apparentemente più semplici come l’Italia o la Francia. Però, al di là delle varianti terminologiche e delle definizioni legislative, molte persone credono di poter facilmente distinguere i connazionali dagli “stranieri” in base ad evidenti differenze culturali cioè agli usi e costumi considerati tipici di determinati popoli. Anche questa credenza, tuttavia, non sembra essere di molto aiuto per tracciare la differenza tra “noi” e “loro”. Senza entrare in approfondimenti che esulano dai nostri obbiettivi e per cui rimandiamo ai testi in bibliografia, potremmo semplicemente chiederci chi siano gli Italiani della tradizione: quelli del cicisbeo inserito fin dal diciottesimo secolo nel contratto matrimoniale o quelli del delitto d’onore abolito solo nel 1981? quelli che tutt’oggi mantengono un corpo ausiliario delle forze armate di sole donne velate (le crocerossine) o quelli delle “veline”? quelli in maggioranza aderenti alla Chiesa Cattolica Romana che tuttora vieta la pillola, il preservativo, il divorzio anche in caso di tentato uxoricidio e i rapporti pre ed extra-matrimoniali o quelli della Dolcevita? Come si vede, si tratta di fatti utilizzabili per confermare luoghi comuni che ritroviamo in molte descrizioni del “carattere degli Italiani”, fatte da stranieri ad uso e consumo di chi vuol “capire il paese” ma che sono tra loro piuttosto incoerenti oltre che, di solito, difficilmente applicabili a noi stessi e alle persone che conosciamo. Allora perchè sopravvivono? Ci aiuta a risolvere il dilemma il sociologo britannico Rupert Brown che, nel suo libro “Psicologia Sociale del Pregiudizio”, sintetizza così l’essenza di queste generalizzazioni: “Noi siamo tutti diversi, loro sono tutti uguali”. Dove per “loro” si intende chi è “fuori” dal nostro gruppo così come in quel momento lo identifichiamo. Lo “straniero” quindi è colui che, indipendentemente dalle “carte” viene, per qualche motivo, messo in un “outgroup” di tutti uguali rispetto allo “ingroup” di tutti diversi. Ciò spiega perchè si ritenga a volte necessario utilizzare “mediatori culturali” per interagire con frotte di persone che, per il solo fatto di avere lo stesso passaporto o di frequentare lo stesso tempio, vengono considerate di mentalità omogenea. Cosa che, certo, non si penserebbe di due nostri conoscenti per il solo fatto che siano entrambi di famiglia locale e battezzati.

Emigrazione e difficoltà psicologiche

Una persona può decidere di andare in un paese diverso da quello in cui è nata per vari e diversi motivi. In ogni caso, a parte situazioni di deportazione forzata, ci va come un individuo che immagina di poterci trovare qualche vantaggio: migliori condizioni economiche, più libertà, un clima migliore, occasioni di studio o di carriera e molto altro. Le aspettative prima della partenza, quindi, sono prevalentemente positive e caratterizzate da anticipazione della vita futura, disimpegno dai legami esistenti, entusiasmo ed eccitazione. Possono però anche manifestarsi paura dell’ignoto, tristezza per quello che si lascia e stress collegato ai preparativi concreti per la partenza.  Subito dopo l’arrivo prevale quasi sempre la curiosità per il nuovo paese, spesso con la sensazione di essere in vacanza. Eventuali difficoltà all’attuazione dei propri programmi vengono considerate temporanee. Per qualcuno, però, possono anche presentarsi problemi ad interpretare il nuovo contesto (per esempio perchè si ignorano le convenzioni che regolano i rapporti con i vicini o i con colleghi di lavoro o con l’altro sesso), difficoltà di comunicazione non solo linguistiche, spaesamento.  Ci si può anche rendere conto con disappunto del disinteresse per il paese da cui si proviene e della diffusione di pregiudizi senza fondamento che nessuno intende modificare. Se queste difficoltà non vengono affrontate e risolte, la persona può sperimentare sentimenti di delusione, solitudine, perdita di autostima o anche rabbia e rancore. In ogni caso, dopo alcuni mesi od anni, essere costretti a fare la parte dello “straniero” può risultare problematico anche per chi sia dotato di spirito di adattamento. Ci si può rendere conto, per esempio, che il nuovo paese non offre affatto le occasioni immaginate. Si può vivere con insofferenza l’atteggiamento dei “locali” nei confronti degli ultimi arrivati o, al contrario, quello della propria comunità di immigrati nei confronti del paese ospitante. Si può anche soffrire di nostalgia e non vedere l’ora di tornare in patria. Salvo accorgersi, quando si torna “a casa”, che nulla più è come si ricordava e la “casa” non c’è più. Tutto ciò può provocare un disagio anche grave che potremmo definire “stress da transculturazione”. Si tratta di un problema noto in medicina fin dal 1688 quando un medico alsaziano, Johannes Hofer, lo descrisse tra i mercenari svizzeri all’estero. Lo chiamò, per l’appunto, nostalgia (dal greco “nostos” , ritorno in patria, e “ algos”,  dolore) e lo considerò  una malattia potenzialmente mortale.

L’emigrazione/immigrazione è un fattore di rischio per le tossicomanie ?

Un fattore di rischio è una condizione, una situazione o un fatto la cui presenza è  associata ad una maggior probabilità di manifestare una determinata malattia o condizione. Per esempio il sesso maschile è attualmente un fattore di rischio per l’infarto del miocardio, per gli incidenti sul lavoro, per le tossicomanie. Queste, però, sono semplici associazioni statistiche.  Non ci dicono nulla sul rapporto tra la mascolinità e gli altri tre fenomeni . Ma ci dicono, per esempio, che quando ci occupiamo di prevenzione delle dipendenze ci converrebbe concentrare gli sforzi sui maschi più che sulle femmine.  Per quanto riguarda l’emigrazione, ci sono moltissimi studi, svolti in varie parti del mondo, che hanno rilevato un maggior o minor uso di sostanze in questo o quel gruppo etnico non autoctono.  Questi dati, oltre ad essere contraddittori, sono anche di difficile interpretazione perché soggetti a troppi fattori confondenti.  Quello che è certo è che, come abbiamo visto, almeno per un certo numero di  persone, l’andare a vivere in un altro paese è fonte di uno specifico stress che può dare origine anche a gravi problemi psicologici. Uno dei modi per far fronte al disagio psicologico è l’utilizzo di sostanze che noi chiamiamo droghe (alcol e tabacco compresi). Quindi possiamo concludere che certamente per qualcuno l’emigrazione può essere un motivo per esporsi all’effetto di droghe, e l’esposizione a queste droghe è certamente la premessa per sviluppare una tossicomania.

Qual’è il rapporto tra  emigrazione/immigrazione e tossicomanie?

Dato per acquisito il fatto che le persone che lasciano il proprio paese sono sottoposte ad uno specifico stress e che le cosiddette sostanze d’abuso sono notoriamente usate per far fronte a tutti i tipi di stress qual è il rapporto tra emigrazione e tossicomanie? Come abbiamo visto, alcuni studi hanno rilevato una frequenza maggiore di tossicomani (e alcolisti e tabagisti) tra alcuni gruppi di immigrati rispetto alla popolazione generale, altri studi una frequenza inferiore. Per spiegare questi risultati dovremmo forse considerare che, anche se la migrazione è vista  spesso come un fenomeno unitario, definito dal concetto di qualcuno che si sposta da un paese ad un altro per abitarci, in realtà tante diverse persone si spostano per tante diverse ragioni. Anche “loro” sono tutti diversi e danno quindi alla migrazione tanti diversi significati . E diversi significati ha anche la correlazione con l’uso di sostanze.  Riferendoci, ad esempio, alla piccola esperienza del SERT di Montichiari di alcuni anni fa, ci è sembrato di poter individuare alcuni casi paradigmatici che potrebbero rappresentare, anche se forse per caso, il possibile diverso rapporto tra migrazione e tossicomania.

Cocaina, abitudine da cittadini del mondo

Transessuale brasiliano 34enne , cocainomane , irregolare, parla portoghese e italiano, scolarità primaria, dedito alla prostituzione con propria soddisfazione, nessun problema economico. Si lamenta dei pregiudizi di tipo sessuale e dell’atteggiamento verso gli stranieri adottato dalle autorità del nostro paese, dove peraltro si trova benissimo . Non sembrano esserci particolari collegamenti tra l’uso di cocaina e la residenza in questo o quel paese. L’assunzione della sostanza sembra piuttosto parte di uno stile di vita e di una sottocultura trasgressiva cosmopolita che non cambia molto al cambiare del contesto geografico, almeno per quanto riguarda Americhe ed Europa.

L’espatrio come terapia della tossicomania

Pazienti europei  (un inglese, una tedesca, un russo e una polacca) tutti eroinomani con un problema secondario di dipendenza o abuso di cocaina o alcol. Tre di essi coniugati con Italiani, in due casi separati. Nessun problema linguistico. Tutti hanno frequentato una scuola superiore o l’università. Tutti avevano una professione in patria. Presentano diagnosi o problemi correlati alla tossicomania piuttosto pesanti: disturbo depressivo maggiore, cefalea a grappolo, disturbo evitante di personalità, disturbo da attacchi di panico, bulimia, mobbing, superlavoro, padre profugo politico, abuso fisico o sessuale, suicidi o morti violente di persone significative per il soggetto, separazione forzata dai figli minori, perdita di status dovuta a rivolgimenti politici.   Sono tutti venuti in Italia nella speranza di smettere di usare eroina e, cambiando paese, pensavano di cambiare completamente vita. Per un po’ ci sono tutti riusciti.

L’eroina come terapia della nostalgia

Indiani Sik , tutti maschi, dai 24 ai 44 anni, eroinomani. Tutti in regola con il permesso di soggiorno, impiegati nell’agricoltura. Molti di loro con moglie e figli in India, qualcuno si è fatto raggiungere dalla famiglia. Nonostante il livello scolastico elevato (per quasi tutti equivalente alla scuola media superiore) non hanno nessuna o una minima conoscenza delle lingue europee. Provengono da una regione, il Punjabi, contesa tra India e Pakistan, tra musulmani e indù, dove l’hindi ha sostituito l’inglese come lingua obbligatoria nelle scuole. Completamente isolati dal contesto locale, lavorano anche 60 ore alla settimana con la speranza di guadagnare abbastanza per tornare in India. Si tratta di persone che non desideravano affatto lasciare il proprio paese, e che, di fatto, emotivamente non lo lasciano. Mantengono infatti stretti legami quasi unicamente tra persone del proprio gruppo etnico, tornano in India per sposarsi e cercano di allevare i figli là. Probabilmente non avevano alcuna idea dell’Italia e non hanno tuttora nessun desiderio di conoscerla.  La tossicomania sembra, nel loro caso, un’epidemia correlata alle condizioni sociali specifiche della loro emigrazione, come lo era l’alcolismo tra gli operai italiani in Francia nel secolo scorso.

Tossicomania e delusione

Pazienti nordafricani politossicomani, immigrati illegalmente e presumibilmente implicati in attività illecite. Hanno qualche problema linguistico con l’italiano ma parlano francese.  Il loro livello scolastico è elevato (scuola media superiore o cultura universitaria), sono di provenienza medio o piccolo borghese. Spesso segnalano problemi connessi ai rapporti con l’altro sesso (partner italiane).  In alcuni casi riferiscono episodi traumatici (vittima di tentato omicidio, sfregio, minacce all’incolumità fisica). L’uso di droghe sembra collegato alle frequentazioni criminali di queste persone. Che peraltro sembrano risentire molto negativamente dello scarto tra l’ambiente sociale e culturale di provenienza, con il suo sistema di valori “perbene” e le aspirazioni “europee” con cui era iniziata la migrazione e la realtà estremamente marginale in cui si sono trovati a vivere. Sembrano persone in grave conflitto con se stesse per le quali l’uso di droghe sembra inserirsi in quello che loro stessi considerano un degrado tanto più difficile da tollerare quanto diverso era il quadro che si erano fatti del proprio futuro in Europa .

Vittime : tossicomania il minore dei problemi

C’è un altro importante gruppo di emigranti che potrebbe fare uso di droghe e che, finora, non ha sempre ricevuto la dovuta attenzione: quello delle persone che hanno lasciato il proprio  paese perché (davvero) perseguitate, e che sono state vittime di gravi violenze, inimmaginabili nel nostro paese. E’ il caso di molti Africani o di soggetti provenienti da paesi come l’Iraq o alcuni stati sudamericani. In questi casi l’uso di sostanze sembra avere un ovvio significato adattativo e certo non è il maggiore dei problemi che queste persone si trovano ad affrontare.

Il  rapporto tra emigrazione ed uso di sostanze può  interferire con il trattamento del singolo paziente ?  

 L’interferenza più ovvia è quella linguistica. Il problema non insorge solo perché non si conosce una lingua comune. Anche quando una persona padroneggia perfettamente lessico e sintassi, infatti, la comunicazione può essere disturbata. Studi linguistici recenti dimostrano che la principale fonte di fraintendimenti non è non capire cosa l’altro dice ma perché lo dice. Per esempio gli Inglesi usano formule dubitative e di cortesia molto più degli Italiani. Il risultato è che un Italiano perfettamente parlante inglese, ma non conscio degli aspetti sequenziali dell’interazione, sembrerà ad un Inglese brusco e maleducato. Al contrario un Inglese parlante italiano non verrà preso in considerazione perché quanto dice verrà considerato ambiguo.  In ambito terapeutico tutto ciò può creare dei problemi: il personale infermieristico, per esempio, potrà trovare sfacciati certi pazienti o trascurarne altri per questo genere di motivi. Un’altra serie di problemi è quella dovuta al fatto che qualunque straniero, almeno inizialmente, può incarnare ai nostri occhi, suo e nostro malgrado, un archetipo tanto potente nella fantasia dell’umanità da aver dato origine a miti fondanti dell’identità di intere nazioni. L’Italia, in particolare, nasce come terra straniera a cui Enea, straniero, è destinato dagli Dei. Questa figura si ripresenta nella fondazione di Roma, opera di Romolo, discendente sì di Enea, ma nuovamente “estraniato” perché allevato da una lupa. E poi di nuovo nel popolamento della città attraverso “criminali” espulsi da altri villaggi. E ancora nel ratto delle Sabine, anch’esse straniere. In questo mito ritroviamo, volendo, tutte le condizioni che ancora e dovunque si associano all’idea di straniero e di straniera : la sconfitta, l’esilio, la devianza, lo stupro tagliano i legami con il passato e perciò consentono uno straordinario futuro che però si compie anche distruggendo la realtà in cui si realizza. Roma, caput mundi, senza confini, comporta la sparizione dell’antico Lazio. E’ una città di stranieri che diventano cittadini. E ciò può non suscitare particolare entusiasmo in chi si identifica con i Latini… Non possiamo in questa sede soffermarci sui risvolti ambivalenti di queste storie ma una cosa è certa: chi va all’estero, da qualunque luogo provenga e ovunque sia diretto, carica la sua persona di un ruolo che gli preesiste e che magari eviterebbe volentieri. Dal punto di vista terapeutico questo può complicare le cose perché noi ci troviamo di fronte a singole persone in crisi che non hanno certo bisogno di un’identità attribuita d’ufficio. L’utilizzo dei cosiddetti “mediatori culturali”, che spesso vengono considerati una buona soluzione, si basa, per esempio, sull’ipotesi che le persone si definiscano fondamentalmente sulla base dell’appartenenza etnica o nazionale e non sulla base di quella politica o sociale. Questo non è, di solito, il punto di vista dell’emigrante. Questo è il punto di vista sugli immigrati. Osserviamo, per esempio, che la parola “cultura” se riferita agli Italiani significa che sono colti. Se riferita agli stranieri o ad un qualsiasi “altro”  locale (i Pugliesi per i Trentini, i Bresciani per i Palermitani, gli Altoatesini per i Milanesi…) significa che sono “tipici”. Ma chi viene in un paese come l’Italia ragiona in termini di Cultura o di culture? Chi viene al SER.T.  vuole un intervento “mirato” a quella che l’operatore ritiene essere la sua specificità “culturale” o, come i nostri Sik senza turbante, vuole del metadone ben dosato?  E perché il metodo Narcotici Anonimi, così apparentemente americano, si diffonde in tutto il mondo con la stessa formula e quindi senza alcun rapporto con la “cultura” locale? E’ forse possibile che il principale problema che incontrano gli  stranieri che accedono ad un servizio sia il fatto che sono considerati stranieri tossicomani mentre sono tossicomani? Infine un caso a parte è quello della terapia delle vittime di persecuzioni. In questi casi la psicoterapia tradizionale basata sulla “terzietà” e sulla “neutralità” del terapeuta, l’approccio alla tossicomania come malattia primaria, l’interpretazione della tossicodipendenza come risposta disfunzionale a un problema della persona sono spesso inadeguate o, ancora più spesso, controproducenti. Rimando per questo al bel libro “Persecutori e vittime” di Francoise Sironi fondatrice del Centro Primo Levi

Suggerimento per gli stranieri stufi di esserlo

Come abbiamo visto, anche nei casi più favorevoli, fare continuamente la parte dello straniero può essere noioso, pesante, stressante. Purtroppo però la nostra identità sociale non è definita solo da noi ma anche e soprattutto dagli altri. In questo caso, dagli “indigeni” che hanno la loro idea degli immigrati di questo o quel colore ma anche dalle comunità di immigrati che si sono stabilite nel paese ospitante inventandosi una identità spesso un po’ fasulla. Basti pensare alle varie “Little Italy” e a quanto strane sembrino ai turisti italiani che le visitano (a cominciare dai ristoranti “italiani”). Purtroppo, come diceva un famoso fisico, è più facile disintegrare l’atomo che un pregiudizio. Ma qualcosa si può fare. Si tratta della cosiddetta categorizzazione incrociata. Il gruppo “dei nostri” (ingroup) e il gruppo “dei loro” (outgroup) sono entità piuttosto artificiali tanto che ciascuno di noi, che lo sappia o no, potrebbe essere inserito in decine di questi schemi. Per esempio: uomini (che, come è noto, vengono da Marte) e donne (quelle di Venere), vegani e cacciatori, interisti e milanisti, bibliofili e no, videogiochisti, scacchisti, esperantisti, casalinghe organizzate, ecologisti, attivisti di varie cause e chi più ne ha più ne metta. Inserirsi in un “ingroup” sufficientemente connotato dal punto di vista sociale che prescinda completamente dall’origine delle persone è un buon modo per dribblare il pregiudizio (anche se, per farlo, se ne utilizza un altro…) o, almeno, per sceglerne uno di nostro gusto.

BIBLIOGRAFIA “CLASSICA”

Sironi F. “ Persecutori e Vittime “ Feltrinelli 1999

Colombo E. “Rappresentazioni dell’Altro” Guerini Studio 1999

Cotesta V.”Lo straniero” Laterza 2002

Pallotti G. “ La seconda lingua” Bompiani 1998

Tsang B. “ Counselling Culturally Diverse Clients” in Alcohol and Drug Problems, ARF 1997

Procacci M. Semerari A, “ Il senso di non appartenenza e non condivisione in alcuni disturbi di personalità: modello clinico e di intervento psicoterapeutico “ in “ Psicoterapia” , 4,12 , 39-49, 1998

Kristeva J. “ Stranieri a se stessi” Feltrinelli 1997

Altri riferimenti bibliografici

Grüsser SM, Wölfling K, Mörsen CP , Albrecht U, Heinz A “Immigration-associated variables and substance dependence” Journal of Studies on Alcohol 2005 66:1, 98-104 https://doi.org/10.15288/jsa.2005.66.98

Carta MG, Bernal M, Hardoy MC, Haro-Abad JM. “Migration and mental health in Europe (the state of the mental health in Europe working group: appendix 1)” Clinical Practice and Epidemiology in Mental Health : CP & EMH. 2005;1:13. doi:10.1186/1745-0179-1-13.

De Maio, F.G. “Immigration as pathogenic: a systematic review of the health of immigrants to Canada” Int J Equity Health (2010) 9: 27. https://doi.org/10.1186/1475-9276-9-27

Rucci, P., et al. “Disparities in mental health care provision to immigrants with severe mental illness in Italy.” Cambridge Univ Press 2015

Sarría-Santamera A, Hijas-Gómez AI, Carmona R  “A systematic review of the use of health services by immigrants and native populations” Public Health Reviews, 2016, Volume 37, Number 1, Page 1

Castaldelli-Maia JM, Bhugra D. “Investigating the interlinkages of alcohol use and misuse, spirituality and culture – insights from a systematic review” Int. Rev. Psychiatry 2014; 26(3): 352-367

ALTRI PROBLEMI DI IDENTITA’ (in corso di redazione)

Blog

Salute pubblica in rete

Democrazia al lavoro: pazienti, consumatori e cittadini

Tossicomanie ed altre dedizioni

Farmaci, droghe, veleni

Problemi correlati