Sdrogabrescia

Usi e abusi

Cos’è una tossicomania

di Mariagrazia Fasoli

(prima versione 2004, aggiornato nel dicembre 2017)

Le persone che hanno problemi con le sostanze d’abuso spesso si sentono in crisi perché non capiscono il proprio comportamento. Quando vogliono smettere, non ci riescono. Fanno cose che non avrebbero mai pensato di fare e di cui si vergognano. Non riconoscono più se stessi. Tutto questo può togliere a queste persone la fiducia e la stima di se stesse o, addirittura, suscitare la paura di essere pazzi, degenerati, “sbagliati”, irrecuperabili. La confusione e lo sconforto possono anche aumentare se la persona in cerca di aiuto per il suo problema si rende conto che gli esperti in materia non sembrano sempre in accordo tra loro e arrivano persino a violente discussioni, anche pubbliche, sostenendo posizioni apparentemente opposte. Questa lettura ha l’obbiettivo di aiutarvi a capire perché avviene tutto ciò in modo che chi ha deciso di seguire un certo programma possa farlo senza dubbi angoscianti.

Le sostanze usate a scopo voluttuario
L’uso di sostanze per alterare il proprio stato d’animo, in modo che sia più adeguato alla situazione che stiamo vivendo, risale probabilmente alle origini dell’umanità. Le bevande alcoliche, per esempio, sono state usate per far fronte, nella maniera considerata “giusta”, ad eventi importanti per la persona o per il suo gruppo. Ad una festa prima di invitare una ragazza, in una riunione prima di prendere la parola in pubblico, ma anche in guerra prima di andare in battaglia o, nella vita di ogni giorno, dopo aver ricevuto una brutta notizia, può sembrare utile bere qualcosa di alcolico o accendersi una sigaretta o bere un caffè per adeguare il nostro umore alla situazione e riuscire con facilità a comportarci come ci si aspetta da noi. Queste sostanze, infatti, hanno un vero e proprio effetto farmacologico sulla nostra mente, anche se è molto difficile che una persona le sperimenti solo  perché ha letto un testo di medicina. E’ molto più probabile che le assuma per il significato sociale che hanno acquisito nella sua cultura, pur collegato all’effetto farmacologico. Nello stesso modo, ognuno di noi ha le proprie particolari abitudini alimentari che influiscono anche sulla salute. Queste abitudini, però, dipendono dal rapporto che abbiamo stabilito con la cultura gastronomica in cui siamo cresciuti e non certo dai corsi di dietologia. Per questo si parla di uso “voluttuario” di certi prodotti come il tabacco, il vino, il caffè il cioccolato ma anche, in altre culture, l’haschish o le foglie di coca. Tutti questi generi voluttuari vengono utilizzati all’interno di una serie di convenzioni sociali ma quasi tutti contengono sostanze psicoattive che, in misura molto diversa, possono influenzare il nostro cervello e, più o meno raramente, indurre quella che i medici hanno chiamato tossicomania o tossicodipendenza ma che potrebbe essere meglio descritta con il più antico termine di dedizione patologica .

Cervello e comportamento
Il comportamento è sempre il risultato di un lavoro molto complesso svolto dal nostro cervello. Questo lavoro consiste (anche) nell’integrare i messaggi che i sensi trasmettono dall’esterno (temperatura, rumore, luce…), quelli che provengono dall’interno del nostro corpo (come il restringimento dei vasi sanguigni quando abbiamo paura), quelli che abbiamo immagazzinato come ricordi (per esempio: esperienze del passato in circostanze analoghe) e quello che abbiamo imparato (come, ad esempio, tradurre i segni dell’alfabeto che state vedendo in questo momento in parole e concetti). Tutto ciò produce una “interpretazione cognitiva” di ciò che stiamo vivendo. Se a questa interpretazione si associa un’emozione noi potremmo mettere in atto un certo comportamento. Per esempio le onde sonore prodotte dal volo di un insetto vicino alle nostre orecchie in pieno giorno, più quello che abbiamo letto sulla zanzara tigre, più il ricordo di precedenti punture produrranno nel nostro cervello l’interpretazione cognitiva “zanzara tigre”. Se a questo concetto si assocerà un’emozione negativa noi faremo immediatamente qualcosa, come spostarci o prendere l’insetticida, “senza nemmeno pensarci”. Ciò significa, in realtà, aver pensato in pochi millisecondi a moltissime cose, pur senza esserne consapevoli. L’intensità della nostra emozione negativa dipenderà, infatti, dalla reale nocività dell’insetto, dal nostro temperamento, dalla nostra personale esperienza, ma anche dall’immagine “sociale” della zanzara tigre, certo peggiore di quella dell’ape, che pure punge anche più dolorosamente. Perciò le nostre azioni, anche le più semplici, sono il frutto di come il nostro cervello elabora informazioni, ragionamenti, ricordi, trasformando tutto ciò in un’interpretazione associata ad uno stato d’animo che determina la nostra motivazione ad agire.

Che cos’è un’emozione
L’etimologia (cioè la scienza che studia l’origine delle parole) ci dice che emozione è tutto ciò che ci fa muovere (dal latino “ex motus” cioè “mosso da”), quindi che induce un comportamento o un sommovimento fisico. Cantautori, poeti, scrittori, filosofi, fisiologi, psicologi e, naturalmente, comuni mortali hanno dato le loro definizioni e ciascuno di noi può scegliere quella che preferisce. Qui interessa sottolineare che le emozioni non hanno sede nel cuore, come un tempo si credeva, ma nel cervello e sono sempre collegate a determinati pensieri. Per questo gli attori riescono a produrre la stessa emozione in centinaia di persone riunite in un teatro, facendole ridere o piangere tutte insieme, indipendentemente dall’umore di partenza di ciascuno. E anche noi possiamo far ridere chi è triste raccontando una storia divertente o far piangere persone serene raccontando storie tristi. Quindi è vero che le emozioni non possono essere controllate volontariamente ma è anche vero che possono essere indotte e modulate da determinati pensieri. Qualunque cosa sia, un’emozione è associata ad un certo stato biochimico del cervello di cui noi diventiamo coscienti anche attraverso sensazioni fisiche, interpretate però come stati psichici. Per esempio il “tuffo al cuore” che ci colpisce quando vediamo la persona amata può essere registrato come aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca e respiratoria ma anche come cambiamento dell’attività elettrica e biochimica di certe aree del nostro cervello.

Come agiscono le sostanze psicotrope
Ma perché certe sostanze possono (a volte) cambiare le nostre emozioni? Per esempio, perché il vino (che contiene alcol) può farci diventare più arrabbiati o più concilianti o più allegri o più tristi? E perché invece gli antidepressivi non fanno nessun effetto a chi è di umore normale e (a volte) migliorano invece l’umore dei depressi? Tutto questo dipende dai meccanismi di funzionamento del nostro cervello. Anzi, per meglio dire, del sistema di comunicazione tra le nostre cellule. Questo sistema comprende quello che la vecchia medicina chiamava apparato nervoso (centrale e periferico) ma anche l’apparato endocrino (costituito dalle ghiandole che producono ormoni) e l’apparato immunitario. Tutto ciò può essere visto come un unico sistema che ha il compito di rilevare, analizzare, elaborare, e rispondere a stimoli, interni o esterni, importanti per la nostra vita e per le nostre relazioni. Le “parole” attraverso cui le cellule comunicano sono particolari molecole (chiamate, di volta in volta, neurotrasmettitori o ormoni) che vengono riconosciute e decifrate da particolari strutture cellulari (chiamate recettori) come le chiavi vengono riconosciute da una serratura. Un altro modo di descrivere l’attività del nostro “cervello diffuso” è il paragone tra i nostri stati d’animo e l’esecuzione di un’opera musicale. Senza il fatto fisico costituito dalle onde sonore prodotte dalla pressione sui tasti del pianoforte, dal passaggio dell’aria nella laringe del cantante, dalle vibrazioni del timpano dello spettatore non si creerebbe nessun concerto. Ma perchè si senta della musica, e non del rumore, occorre anche un compositore che abbia tradotto il suo “pensiero musicale” in un spartito leggibile da musicisti e cantanti e almeno un ascoltatore che traduca quelle onde in una elaborazione  mentale. Perciò non ha proprio senso parlare di un’opera musicale come fatto “psichico” o “fisico” e, infatti, nessun musicista la vede così. Nel nostro cervello l’interazione tra recettore e neurotrasmettitore ha la funzione dei tasti premuti. Le sostanze psicotrope (cioè attive sulla psiche) interferiscono con la musica suonata come tasti di altri strumenti che producono altri suoni. Il risultato finale dipende dal tipo di strumento che aggiungo ma anche dallo spartito. Per esempio l’effetto disinibente dell’alcol può liberare rabbia, allegria, tristezza in base all’umore sottostante. Alcune di queste sostanze vengono usate come farmaci e, in questi casi, sostituiscono o regolano la produzione per qualche motivo alterata di neurotrasmettitori ripristinando le condizioni fisiologiche oppure neutralizzandole (come avviene nel caso del fisiologicissimo dolore) quando ci creano più danni che vantaggi. Un esempio è il caso di una persona che sta bene e non ha particolari problemi e che, in pochi giorni, comincia a sentirsi disperata come chi ha subito ha subito una gravissima perdita: molto probabilmente ha sviluppato una malattia, collegata alla riduzione di alcuni neurotrasmettitori, che si chiama disturbo depressivo maggiore. Una depressione può essere causata da squilibri biochimici indotti, per esempio, da sostanze antivirali come l’interferone o da sostanze ormonali come i contraccettivi orali, o da infezioni o da carenze vitaminiche o persino da condizioni fisiologiche come il parto. Nella maggior parte dei casi non possiamo individuarne la causa ma, spesso, possiamo ugualmente risolvere il problema in poche settimane somministrando dei farmaci, chiamati antidepressivi, che sostituiscono oppure stimolano la produzione delle molecole mancanti, ripristinando il giusto equilibrio.

Le droghe come psicofarmaci
Molto prima che i farmacologi studiassero il nostro cervello l’umanità aveva scoperto le proprietà terapeutiche di certe sostanze naturali, generalmente usate a scopo voluttuario, sulle malattie mentali. L’oppio, per esempio, è stato utilizzato per secoli per i cosiddetti “pazzi furiosi”. Costoro, probabilmente, erano persone affette da una malattia mentale, chiamata “disturbo bipolare”, caratterizzata da improvvisi passaggi da uno stato di eccitazione ad uno stato di profonda depressione. Oggi questa malattia si può curare perfettamente con il litio. Dato però che esistono ancora molti pregiudizi sulle malattie mentali, a volte, le persone con questo disturbo evitano di rivolgersi ad uno psichiatra per non sentirsi, appunto, “pazzi furiosi”. Se costoro si rendono conto che assumendo eroina il loro stato mentale migliora continueranno a farlo e rischieranno di sviluppare una tossicomania cioè di perdere il controllo sulla quantità di sostanza assunta ed anche sui suoi effetti. Il motivo per cui sono stati inventati nuovi psicofarmaci infatti è proprio la pericolosità dei vecchi rimedi. Così come possono “curare” i sintomi di certe malattie psichiatriche, infatti, la maggior parte delle droghe possono anche riprodurre sintomi psichiatrici creando gravi problemi diagnostici e terapeutici.

Le droghe come “adattogeni”
Di regola le emozioni negative prodotte dai nostri neurotrasmettitori non sono sintomi di malattia ma importanti segnali di allarme che il nostro cervello ci invia per farci reagire a qualcosa di dannoso o pericoloso, come la morte o l’abbandono da parte di una persona cara o la mancanza di riconoscimento sociale o di sicurezza o di amicizie. Se non possiamo agire sul problema, o se le nostre azioni non sono efficaci, questo segnale diventa un allarme che suona a vuoto e perde la sua utilità mantenendo solo i lati spiacevoli. E’ un’emozione che non può farci “muovere” ma può solo farci sentire molto male. Almeno per un po’ perché, in molti casi, con il tempo, la reazione neuropsicobiologica si attenua spontaneamente. I nostri pensieri, inoltre, possono dare un senso a quello che ci accade e produrre emozioni meno negative e, a lungo termine, persino positive. Sugli stati d’animo fisiologici, ma non più utili, è però possibile intervenire anche con sostanze che alterano l’umore. In questi casi, a differenza di ciò che accade con gli psicofarmaci prescritti per vere malattie psichiatriche, le sostanze non ripristinano la situazione fisiologica (che, anzi, è quella a cui vogliamo sfuggire, perché spiacevole) ma producono un cambiamento temporaneo e “artefatto” delle nostre emozioni. Così, per esempio, una persona paralizzata dalla paura di sbagliare o estremamente stanca può sentirsi subito sicura e in forma assumendo cocaina e riuscire a fare quello di cui non si sentiva capace. Molte “droghe” sono state usate per millenni proprio a questo scopo “adattogeno” cioè per adattare rapidamente le proprie emozioni e percezioni alle circostanze. In passato, e per qualcuno ancora oggi, questa funzione era molto importante, addirittura “salvavita”. La condizione umana era, infatti, precaria e le persone potevano solo sperare di vivere alla giornata facendo fronte come potevano a pericoli e stress. Si pensi, per esempio, ai soldati nelle trincee della prima guerra mondiale e alla funzione svolta dall’alcol e dalle sigarette per prevenire una totale perdita di controllo a cui sarebbe probabilmente seguita una sicura disfatta.

Le droghe come abitudine sociale
Oltre agli effetti sopra descritti, dovuti all’azione delle sostanze sui nostri recettori, ci sono però anche altri fattori che inducono la persone ad usare droghe. Tutti questi composti, infatti, hanno anche un significato sociale. Possiamo definire significato sociale il valore che il gruppo in cui ci riconosciamo attribuisce a un certo comportamento. Per esempio, festeggiare il capodanno con lo spumante o con la cocaina non è semplicemente una questione di gusti ma può indicare l’adesione o il rifiuto di determinate convenzioni sociali, anche se le due sostanze possono entrambe indurre una grave dipendenza e gravi danni alla salute. Il contesto sociale e ambientale però non condiziona solo la scelta della sostanza ma, in parte, anche i suoi effetti, dato che questi derivano sempre dall’interazione del farmaco con il nostro stato mentale che è fortemente dipendente dalla situazione sociale. Ecco perché, per esempio, l’assunzione generalizzata di alcolici a Brescia, prima della partita con l’Atalanta, è foriera di disordini e violenze e non lo è affatto quando le stesse persone, nella stessa città, bevono altrettanto, nel corso di un raduno degli Alpini. Per questi motivi, la maggior parte delle droghe, assunte in determinati modi e circostanze, sono state considerate, in qualche epoca o in qualche paese, dei veri e propri fattori di aggregazione sociale mentre in altre circostanze sono state considerate, e sono state, causa di disgregazione.

Perché molte persone non smettono di usare droghe sapendo che producono danni
Come si è detto, le cosiddette droghe sono state usate dall’umanità come “normali” generi di conforto. Non quindi per stare male ma per sentirsi bene e per essere in grado di far fronte a situazioni difficili. Purtroppo, però, a lungo termine, gli svantaggi di queste abitudini superano molto spesso i vantaggi. Tutti ormai conoscono i danni fisici (per esempio il cancro o l’infarto nei tabagisti), psichici (per esempio l’instabilità emotiva degli eroinomani) e sociali (per esempio le eccessive spese dovute al costo della cocaina) collegati all’uso di sostanze. Perché, allora, tante persone, quando si accorgono di ottenere più danni che vantaggi dall’uso di questi “prodotti”, vorrebbero smettere ma non ci riescono? A questa domanda sono state date molte risposte, più o meno confermate dai fatti. La tesi più diffusa tra chi non ha mai sperimentato nessuna dipendenza è che tutto ciò sia dovuto a malafede, stupidità o “debolezza di carattere”. In realtà nessuno studio condotto con i metodi più rigorosi della ricerca scientifica è mai riuscito a dimostrare l’esistenza di una “personalità tossicomanica”. Del resto, se si fa una rassegna dei personaggi noti per il loro valore e la loro “forza”, di cui è nota anche la tossicomania, vi si trovano veramente persone di ogni genere: “devianti” come i poeti Gabriele D’Annunzio (cocaina) e Charles Baudelaire (oppio), benefattori come la fondatrice del servizio infermieristico in zone di guerra Florence Nightingale (oppio), grandi psicologi come il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud (cocaina e tabacco), nonché grandi campioni dello sport, famosi uomini politici e capitani di industria a tutti noti. Forse è meno noto che anche gli umili topini da laboratorio, se trattati con le stesse droghe, in analoghe circostanze, presentano comportamenti identici a quelli dei tossicomani umani. Per esempio i ratti resi cocainomani sono disposti a rinunciare al cibo, a camminare su lastre roventi, a premere una leva fino a 270 volte per avere una sola somministrazione di cocaina. Gli studi su animali, per quanto contestati dagli animalisti, ci hanno insegnato molto sui meccanismi della tossicomania. Altre informazioni sono state invece ricavate dagli studi di neuroradiologia (ormai in grado di farci vedere il cervello “all’opera”), di psicologia clinica e di farmacologia clinica. La conclusione che ne emerge è che le persone, e gli animali, non smettono di usare droghe non ostante il danno perché sono diventate tossicomani cioè perché il loro cervello, attraverso la deviazione di una serie di meccanismi psicofisiologici fondamentali per la nostra sopravvivenza individuale e di specie, produce uno stato di estremo disagio in assenza della sostanza. Questo stato psicofisico viene chiamato “craving” nella letteratura scientifica internazionale, ma la parola più adatta per descriverlo in italiano è “smania”.

La smania
La comparsa della smania definita dal vocabolario come “desiderio intenso, agitazione, inquietudine fisica e psichica dovuta a impazienza, nervosismo, fastidio” è il sintomo cardine della tossicomania. Questa condizione è identica per tutte le droghe e non ha nulla a che fare con la sindrome d’astinenza. La sindrome d’astinenza, infatti, è solo il segnale della cosiddetta dipendenza fisica. Si tratta di una serie di sintomi psichici e fisici che si manifestano quando si sospende di colpo una sostanza che si è assunta per molto tempo. Questa sindrome non è presente per tutte le droghe, è presente per molti farmaci che droghe non sono affatto (per esempio alcuni antiipertensivi), ed ha caratteristiche diverse per le diverse sostanze. Si risolve in pochi giorni o in poche settimane e non ha molto a che fare con le ricadute nell’uso di sostanze. Il termine “smania”, invece, utilizzato in italiano fin dal ‘300, descrive uno stato che non è certo riferito specificamente alla situazione di chi è dedito all’alcol o alla cocaina. In effetti, in condizioni fisiologiche, gli uomini e gli animali, sono presi da smania quando devono mettere in atto comportamenti essenziali per la sopravvivenza della specie, anche a costo di correre gravi rischi individuali. Questi comportamenti sono la ricerca del cibo per sé e per i propri simili (caccia), la sessualità (innamoramento), la cura della prole (amore materno), l’aggressività (guerra). Tutto ciò non ha a che fare con il piacere ma con la passione. Oggi non c’è bisogno della passione per la caccia per sfamare la famiglia, né della passione degli innamorati per riprodursi rischiando la vita, né di quella delle madri per salvare i piccoli da catastrofi e saccheggi, né di quella dei guerrieri per impadronirsi delle risorse utili alla sopravvivenza della tribù. Ma il nostro cervello si è evoluto durante oltre 170.000 anni di preistoria e solo alcuni millenni di civiltà. Perciò la struttura della nostra mente, ancora oggi, ha molto in comune con quella dei nostri più lontani antenati e ciò spiega perché anche la nostra attuale organizzazione sociale, in fondo, sia spesso dominata dalle passioni (per l’innamorato, per Dio, per la scienza, per il cotechino, per l’Inter, per la patria, per i francobolli) molto più che dai piaceri o dai ragionamenti. Quando una passione diventa la cosa più importante nella vita di una persona, parliamo di dedizione. La maggior parte delle dedizioni non sono certo patologiche anche se, coloro che ne sono immuni, pensano spesso che i “colpiti” (innamorati, collezionisti, tifosi, mistici, patrioti e tutti quelli che darebbero la vita per la loro passione) non abbiano tutte le “rotelle a posto”. Solo gli “appassionati” in minoranza rischiano di essere etichettati come squilibrati ma la ricerca sociologica ha da tempo chiarito che sono solo “devianti” cioè persone che si appassionano a modo loro invece che nei modi approvati dalla maggioranza. Tutto ciò ha però un riscontro neurobiologico nel nostro cervello. Come si è detto, grazie alla neuroradiologia, oggi, possiamo studiare anche il cervello umano in attività. Abbiamo così scoperto che la comparsa della smania associata a queste “passioni” comporta l’attivazione di specifici sistemi neuronali e di certe aree cerebrali, non coincidenti con quelle del piacere, che rappresentano probabilmente la specifica funzione della “concupiscenza” cioè del desiderio “appassionato” che ci fa “muovere” superando ogni ostacolo e non ostante ogni rischio: il nostro “motore motivazionale”. Tutte le droghe, indipendentemente dai loro diversi effetti, agiscono anche su questo sistema. Possiamo quindi ipotizzare che la tossicomania sia una malattia nel senso che è probabilmente correlata ad uno squilibrio cronico di questo sistema, determinato dall’uso di droghe. Squilibri analoghi, peraltro, si manifestano anche con altre “manie” non indotte da sostanze, ma molto simili dal punto di vista clinico, tutte collegabili ai comportamenti sopra citati: cibo (bulimia, prodigalità), caccia (gioco d’azzardo), guerra (temerarietà e sport estremi), sesso (ninfomania, satiriasi), amore (dipendenza emotiva). Possiamo quindi concludere che il motivo per cui chi è dedito a droghe non riesce a smettere quando vorrebbe farlo è molto vicino (ma molto meno utile alla specie) a quello per cui continuiamo a telefonare al fidanzato infedele che vorremmo lasciare: il nostro irragionevole sistema neuro-recettoriale, da noi incautamente esposto troppo a lungo a quella persona o a quella droga, le ha registrate erroneamente come indispensabili alla nostra vita e ci segnala la loro mancanza con una (quasi) intollerabile smania che dobbiamo ad ogni costo appagare.

Perché molte persone smettono di usare droghe non ostante la smania
Come tutti i comportamenti, l’uso di droghe è condizionato da molti fattori diversi dal nostro personale stato d’animo. Il nostro stato d’animo, d’altra parte, è influenzato da moltissimi fattori che non hanno nulla a che fare con la nostra eventuale dedizione. Infine nulla vieta che una persona sviluppi molte passioni, tutte altrettanto “forti”. E’ noto a tutti il caso della fumatrice accanita che smette di colpo non appena sa di essere incinta ma anche quello dell’alcolista che smette di bere non appena si innamora (o dell’innamorato che diventa alcolista dopo l’ultimo rifiuto). Il più ovvio motivo per cui una persona riesce a controllare l’incontrollabile, cioè la smania, è una forte motivazione sostenuta da qualche altra passione. Su queste osservazione si basano molti programmi terapeutici centrati, per esempio, sulla spiritualità come i programmi di auto-aiuto AA e NA e quelli di molte comunità terapeutiche fondate da religiosi. Un altro motivo per cui una persona può smettere è che, in certe circostanze, la smania e la conseguente assunzione di droghe siano sistematicamente associate alla percezione di esperienze negative e l’astensione sia associata alla percezione di esperienze positive. E’ in questo modo che la maggior parte delle sedotte e abbandonate finiscono per sposare l’amico, meno affascinante ma molto più piacevole, sulla cui spalla, una sera dopo l’altra, hanno pianto (ma sempre meno) il perduto amore. Questa possibilità di condizionamento è sfruttata da molti programmi comportamentali che coinvolgono l’ambiente sociale del paziente, come i gruppi basati sulla metodologia dei Club Alcolisti in Trattamento (CAT), alcune psicoterapie o la terapia con disulfiram, un farmaco che produce malessere quando si assume alcol. Può anche succedere che, in un determinato contesto, il significato sociale dell’uso di sostanze cambi completamente e ciò sia sufficiente ad inibire la comparsa della smania. Ciò spiega alcune complete “guarigioni” di chi va all’estero ed è anche alla base dei successi di alcune comunità terapeutiche. In altri casi, la mente riesce a percepire ed interpretare la smania in una maniera completamente diversa separandola dal comportamento di assunzione. Questo meccanismo, un po’ più raffinato, viene sfruttato, insieme ad altri, dalle psicoterapie cognitivo comportamentali e richiede in genere un aiuto professionale. La smania può essere anche controllata farmacologicamente, almeno per alcune sostanze, consentendo alla persona di vivere in maniera assolutamente normale e senza danni. Su questo si basano i trattamenti farmacologici come il mantenimento con metadone per gli eroinomani. Questi trattamenti però non sono semplici come si potrebbe credere e dovrebbero quindi essere condotti da medici esperti. In conclusione la smania, e quindi la dedizione, è un fenomeno psicobiologico che si presenta come una reazione indesiderata all’esposizione a certe sostanze assunte per ottenere tutt’altri effetti. La sua manifestazione è condizionata da molti altri fattori biologici, psicologici e sociali. I diversi metodi di intervento sfruttano questi diversi fattori.

Cosa predispone alla dedizione
Premesso che non esiste nessuna “personalità tossicomanica” che permetta di predire, in base ad un qualche test, chi diventerà tossicomane e chi no, molti studi hanno dimostrato l’associazione tra lo sviluppo di una dedizione alle droghe e alcune condizioni biologiche, psicologiche, sociali o di carattere medico. Queste condizioni non sono le “cause” della probabile malattia del nostro sistema neuro-recettoriale, determinata dall’esposizione alla sostanza, così come il sovraffollamento e la malnutrizione non sono le cause della tubercolosi, dovuta unicamente al bacillo di Koch. Però aumentano il rischio perché facilitano l’esposizione ripetuta alle droghe, dato che risentono positivamente di alcuni loro effetti. Per esempio una persona molto timida potrebbe avere relazioni personali più facili assumendo alcolici o cocaina. Questo però le fa correre il rischio di sviluppare una dedizione. Una persona affetta da emicrania tenderà ad utilizzare qualunque cosa le tolga il dolore e, con l’auto-terapia, avrà molte probabilità di sviluppare problemi di farmacodipendenza. Anche l’aver subito gravi violenze fisiche o morali (maltrattamenti, violenza sessuale, mobbing, detenzione) può indurre le persone ad assumere droghe semplicemente per poter sopravvivere a ricordi altrimenti intollerabili. Inoltre chi, come i maschi, per motivi biologici regge bene le sostanze d’abuso, le assumerà più frequentemente di chi manifesta subito intolleranza come la maggior parte delle donne. Un altro fattore molto importante nel determinare o no l’insorgere di una dedizione, a parità di esposizione alla sostanza, è la situazione psichica della persona che, naturalmente, è determinata dalle sue relazioni affettive e sociali, dalla sua soddisfazione sul lavoro, dalle sue condizioni di salute, dalla sua filosofia di vita. In molti casi gli antecedenti della tossicomania devono in qualche modo essere affrontati e risolti contestualmente al programma mirato alla sospensione della sostanza perché, altrimenti, la persona finirebbe per stare peggio senza droga che con la droga. Oltre a ciò, la presenza di problemi così disturbanti può continuamente compromettere la motivazione a seguire un programma o a mantenere la sobrietà. Per tutti questi motivi, accanto ad una terapia o ad un metodo per smettere di usare la sostanza, viene a volte proposta una terapia (o un metodo) per affrontare eventuali problemi che ne hanno facilitato l’uso. Alcune psicoterapie, più impegnative e complesse di quelle centrate semplicemente sull’astinenza, possono essere utili, o addirittura necessarie, in molti di questi casi.

Come scegliere un programma
Da quanto sopra esposto si deduce che l’intervento sulle dedizioni patologiche può essere fatto efficacemente a molti livelli, con diversi metodi ed anche basandosi su diverse teorie della dedizione. Ciò è confermato da tutte le ricerche scientifiche su larga scala finora condotte: in tutti i casi la conclusione è stata che i programmi funzionano e, su base statistica, tutti i tipi di programma funzionano nella stessa misura. Questa affermazione può sembrare in contrasto con le continue diatribe tra cosiddetti “esperti” che arrivano ad accusarsi di incompetenza dai giornali e dagli schermi televisivi (per non parlare dei loro convegni), ognuno sostenendo il proprio metodo. A volte queste posizioni possono essere spiegate da condizionamenti economici (ognuno cerca di vendere la merce che ha) ma più probabilmente dipendono dal fatto che i pazienti non scelgono a caso la terapia e, quindi, i diversi terapeuti non vedono lo stesso tipo di paziente. Per esempio chi è divenuto eroinomane nel quartiere malfamato di una grande città, dove è normale vivere di spaccio, nel decidere di cambiare vita si rivolgerà probabilmente ad una comunità terapeutica basata sul cambiamento dei valori. Una persona con disturbi mentali che compromettono le sue relazioni famigliari, invece, cercherà una comunità psicoterapica. L’abile artigiano con un mucchio di clienti impazienti e una dipendenza da eroina si troverà benissimo con un trattamento di mantenimento con metadone mentre l’insegnante di latino cocainomane troverà nei gruppi Narcotici Anonimi riservatezza, solidarietà e l’atteggiamento non giudicante di cui ha bisogno. Il fatto che chi opera con questi diversi metodi creda fermamente al presupposto del suo programma, se non rallegra le persone che preferirebbero nondover decidere di quale “drogologo” fidarsi, è però, probabilmente, un fattore di successo, come alcune ricerche hanno confermato. Fatte le debite distinzioni, ogni teoria può essere vera e utile, così come ogni teoria può essere falsa e nociva. I servizi pubblici per le tossicodipendenze (SERT) e i servizi multidisciplinari integrati (SMI; per ora esistenti solo in Lombardia) sono stati creati per offrire, direttamente o indirettamente, tutti i tipi di intervento e quindi dovrebbero essere in grado di orientare i pazienti a valutare i pro e i contro dei vari interventi e, soprattutto, come le varie teorie, peraltro sempre in fase di revisione, possono adattarsi alla situazione di quella persona in quel momento. In ogni caso il paziente ha il diritto, e l’interesse, a chiedere a qualsiasi terapeuta di spiegare chiaramente quali sono le basi del suo metodo, per quale motivo pensa possa essere utile in quel particolare caso, quali risultati è ragionevole aspettarsi e in quali tempi. In caso di interventi sanitari o di psicoterapie, inoltre, è anche utile informarsi sulla qualifica del terapeuta. E’ importante infine ricordare che in questo campo non esistono terapie efficaci in assoluto, cioè a prescindere dalle convinzioni e dalla collaborazione dell’interessato: perciò non sembra consigliabile impegnarsi in un programma, magari tecnicamente perfetto, ma non in armonia con l’idea che il paziente ha del suo problema.

Perché un programma può fallire
Non ostante le moltissime ricerche effettuate, è probabile che cominciamo solo ora a intravvedere tutti gli aspetti della tossicomania. E’ anche possibile che ciò che chiamiamo tossicomania sia il fenomeno patologico comune ad una serie di condizioni diverse così come la febbre è il fenomeno patologico comune a molte malattie infettive. Quindi il primo motivo per cui un programma può fallire è che i suoi presupposti non si adattano alla concreta condizione di quel paziente o, anche, addirittura la aggravano. E’ il caso delle vittime impotenti di gravi violenze che si sottopongono a psicoterapie basate sul presupposto che la psiche del paziente sia all’origine dei suoi problemi invece di rivolgersi ad interventi che presuppongono la immediata attivazione di provvedimenti in sua difesa. O della guida turistica continuamente in viaggio costretta a perdere il lavoro per ritirare una farmaco sostitutivo nei modi e nei tempi previsti dalla legge di vari paesi. Altre volte, come è il caso di molte psicoterapie, il programma richiederebbe competenze, per esempio linguistiche, che il paziente non ha. Oppure, come le terapie di gruppo, richiede una esposizione dei propri affari personali che non tutti sono in grado di tollerare. Due cause di fallimento tuttavia sono abbastanza comuni in tutti i trattamenti: la mancanza di sufficiente motivazione e la mancanza del senso di auto-efficacia cioè della convinzione di potercela fare. Una persona per esempio può decidere di seguire un programma per smettere di fumare non perché veda le sigarette come un problema ma per far cessare le lamentele di famigliari e colleghi. Il suo obiettivo e quello del programma, in questo caso, divergeranno e, molto probabilmente, nessuno dei due sarà raggiunto. In casi di questo tipo, sarebbe molto più utile chiedere un programma centrato sulla motivazione perché per ogni fase del processo di cambiamento sono utili interventi diversi: per esempio quando l’interessato “non vede il problema” potrebbe servirgli ricevere un supplemento di informazioni e uno spazio in cui elaborarle più che indicazioni su come smettere. Altre persone invece sono ben consce della gravità della loro tossicomania e dei danni che ne derivano ma, proprio per questo, si sentono impotenti ad affrontarla e più si sforzano di cercare metodi avanzati e terapeuti esperti più si convincono della propria incapacità. Per questi pazienti è molto più utile sperimentare direttamente o indirettamente piccoli successi, magari confrontandosi con un amico altrettanto compromesso che “ce l’ha fatta” in un modo qualsiasi, piuttosto che sottoporsi a lunghi percorsi diagnostici e terapeutici che sarebbero solo una conferma della propria inadeguatezza e , in quel momento, peggiorerebbero la situazione.

Aggiornato da Mariagrazia Fasoli il 1 dicembre 2017

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